C’è una vecchia diceria che invita a prendere quanto di buono ci possa essere in un brutto accadimento. Cogliete l’aspetto positivo delle cose, invogliano i saggi, si guardi sempre il bicchiere mezzo pieno. Resilienza! invocherebbero i linguisti dell’ultima ora. Piuttosto complicato quando si è in procinto di inaugurare una biennale pandemica.
Questo periodo di chiusura ha fatto crollare i ponti d’oltreoceano, ha tarpato le ali agli aerei dalle destinazioni esotiche, così come ai sogni del momento, costringendoci a ridisegnare tappe geografiche e mappe di pensiero. Abbiamo messo uno stop sulla road tracciata da Kerouac, su cui correvamo con quel rabbioso slancio beatnik che ci obbligava ad “andare e non fermarci finché non siamo arrivati”, che anche se non si sapeva dove, “dovevamo andare”.
Non siamo partiti alla volta dell’Oriente, non abbiamo sfogliato le storie della City Lights di San Francisco, né abbiamo piroettato lungo Lombard Street fino alla Little Italy di Boston. Ci appelliamo al ricordo dei viaggi fatti finora e talvolta ne restiamo stupiti, perché abbiamo visitato con meraviglia i quartieri italiani di città straniere senza conoscerne l’originario termine di paragone, i borghi storici. Un paradosso a rifletterci su.
Ebbene, a voler vedere il bicchiere mezzo pieno, la pandemia ci ha costretti a restare e, in alcuni casi, a tornare. Abbiamo colto al volo lo smart working per immergerci, forse per la prima volta, nelle viscere della terra calda dei primi natali. Per riviverli con la maturità dell’età adulta. Ecco allora che si sono spalancate (anche se in realtà non si sono mai chiuse) le porte dei luoghi della tolleranza. I paesi hanno ripreso ad accogliere turisti come figli adolescenti che, invaghiti dal sogno americano, sono fuggiti di casa sbattendo la porta in cerca di fortuna.
In questo viaggio di ritorno, in cui i piccoli borghi sono rimasti intatti, qualcosa è stato restituito all’anima. Qualcosa è tornato alla vita nell’anno del cosiddetto slow tourism. Si sono riaccese le fiammelle dei centri storici, si sente il vociare delle case raccolte in un abbraccio di edera e pietra, si affollano i mercati delle piazze. Sono ricomparsi i panni stesi alle finestre, lungo fili di corda che legano famiglie e fanno rifiorire i vicoli come una primavera anacronistica. Sono l’eco di un passato lontano tra le pareti di tufo, l’odore delle cantine, i sapori custoditi nelle cucine di rame a guidarci nell’esplorazione dei posti del cuore.
Ci siamo riscoperti viaggiatori di confine, dei Magellano impegnati a ridisegnare mappe mentali entro confini regionali dai colori primari. La rinuncia alla via per Santiago in cambio di una Francigena d’alto Lazio, varcando usanze e ricordi scanditi dal tocco delle campane. Risorge una memoria antica, i borghi si popolano di curiosi, anche se ancora si lotta contro un brutale spopolamento sociale.
È quindi giunto il tempo di mettere la penna al servizio dei paesi, dei luoghi di prossimità, dei gusti caserecci e della gastronomia tradizionale, ognuna con la sua indiscussa identità, in un viaggio lento alla ricerca dell’infanzia perduta. Restiamo a distanza ma continuiamo a tenerci stretti i paesi, impegniamoci a salvare la vita semplice ed eroica di un mondo che non ci ha dimenticati, ma che ha tenuto al riparo un posto solo per noi.
“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.“
Cesare Pavese, la luna e i falò
Pubblicato su Flash Magazine (febbraio 2022)