Ho trovato la via alla luce della luna, ma ho aspettato l’alba per vedere il mio Cammino
E non c’è niente di più bello dell’istante che precede il viaggio, l’istante in cui l’orizzonte del domani viene a renderci visita e a raccontarci le sue promesse.
Milan Kundera
Astorga-Foncebadon: che il Cammino abbia inizio…
Dopo due ore di aereo (Roma-Madrid) e cinque di pullman, finalmente approdo ad Astorga. Se avete una manciata di ore, vi consiglio di girovagare per la cittadina. È deliziosa.
Il tempo di fare un salto in hotel per lasciare la mochila, un giretto per la città ed ecco che lo stomaco mi insultava in mandarino per essere rifocillato. La mia prima cena con menù del pellegrino. Un lauto antipasto, un secondo di carne, contorno e una bottiglia di rosato divisa con la cameriera della locanda. Una simpatica spagnola che aveva trascorso qualche anno a Roma e che mi ha fatto compagnia per la cena. Si brinda alla mia prima serata in Castiglia, ai chilometri che mi aspettano l’indomani e ad un viaggio che ancora mi fa godere dei suoi straordinari albori.
L’ultima notte trascorsa in lenzuola pulite solo per me. Una partita di tennis passata in tv. Qualche messaggio di incoraggiamento, da parte di chi c’è sempre stato nei momenti peggiori.
Si spengono le luci che domani si parte.
La meta del giorno è Rabanal del Camino. Ma, in realtà, non ho un programma ben definito. E la possibilità di improvvisare senza dover rendere conto a qualcuno è un’esperienza che, forse, ho provato per la prima volta. Sarei arrivata fin dove le gambe mi avrebbero portata.
Lascio la città che è ancora notte fonda. Eppure sono appena le 6 del mattino. Ad illuminarmi la via una torcia in testa e qualche pellegrino già in cammino con passo sicuro. Tutt’altro che uguale al mio.
Uscire dalle città porta, spesso, a confondersi. Quindi vi consiglio una mappa per orientarvi meglio. Esco da Astorga passando accanto all’affascinante eremo dell’Ecce Homo, incontrato all’incrocio per il villaggio di Valdeviejas. Non dimenticate di far apporre il sello dal mattiniero eremita che trovate lì.
Passando per l’Autostrada A-6, superato il cavalcavia, sono stata pervasa da una strana sensazione. Ho avuto come l’impressione di essere decisamente anacronistica. Un po’ come Leopold in Kate e Leopold. Una pellegrina d’altri tempi, che si trascinava goffamente con uno zaino di 9 kg mentre mezzi di trasporto futuristici mi sfrecciavano accanto su una strada asfaltata. Persa nei miei soliti pensieri confusionari arrivo a Murrias de Rechivaldo. E continuo a camminare.
Solcando una strada spianata di mattoncini rossi, giungo a Castrillo de los Polvazares. Una località che ospita i resti di un accampamento romano, impregnata dello spirito della Maragateria (antica popolazione della regione). Ancora pochi chilometri (all’incirca 4) e sì, direi che una bella colazione a Santa Catalina de Somoza me la sono meritata.
Con estrema soddisfazione do una serie di indicazioni mediche ad una spagnola sulla cinquantina. Si accaniva contro il marito per una tremenda infiammazione al nervo sciatico. Perlomeno così mi è sembrato di capire dal suo spagnolo spinto.
Ho pensato fosse cosa buona e giusta mettere in salvo non tanto lei quanto l’ingiuriato compagno. Fatto sta che, la mia prima pasticca di ibuprofene mi abbandonava per la salvezza dei nervi, sciatici e non, di perfetti sconosciuti.
Riprendo a camminare. E finalmente dopo qualche chilometro è arrivata la domanda che tutti si erano fatti tranne me: ma che ci facevo a camminare come un’ossessa, da sola, lungo un sentiero sterrato di un altro Paese? Che cosa pensavo di ottenere mettendo un piede davanti all’altro per chilometri e chilometri? Ma, poi, per cercare cosa?
Quella scelta finalmente stava trovando il suo senso: nessun senso. Non c’è alcun senso logico, o spiegazione razionale, nel partire e farsi 30 chilometri al giorno. Tutti i giorni. Per giorni e giorni. Perché l’8 di agosto non ero, come gli altri anni, spiaggiata come un totano su una qualche costa bianca con mojito e cappellino di paglia da vera sciura? Come mi era passato per la testa di partire per un viaggio con uno zaino da 60 litri, in cui mettere solamente un paio di scarpe? Io, capito?! Che per due giorni via ne porto 4-5 paia che nonsisamai. Ma a quel punto cosa mai avrei potuto fare? Tornare indietro? Neanche per idea.
Perché, a dirla tutta, quella strana sensazione di camminare convinta che mi avrebbe portato a qualcosa non mi aveva mollata neanche per un attimo. Era l’unica cosa che mi restava e a cui potevo aggrapparmi. Quindi, mettendo da parte la prima vera domanda di senso che mi ero fatta su quell’avventura, ho continuato a camminare.
Finché, tutte queste congetture si sono fatte da parte davanti ad uno spettacolo senza fine.
L’alba sul Cammino di Santiago.
La mia prima alba. Le prime lacrime e un calore improvviso che mi smorza il fiato. Difficile voltargli le spalle. Ma nel bene e nel male si va avanti. Sempre. E, seguendo la Calle Real, procedo verso El Ganso, un antico villaggio reso vivo solo in estate dal passaggio dei pellegrini.
Continuando sull’unica strada percorribile, entro a Rabanal del Camino, dove mi accoglie un palazzo che in epoca medievale fu Albergo dei Pellegrini. Rabanal è senza dubbio un luogo di rilievo lungo il pellegrinaggio. Oltre ad essere, nel Medioevo, avamposto dei Templari che proteggevano i pellegrini, Rabanal ospitò anche Carlo Magno.
Riprendo il viaggio tra los Montes de Leòn, fino ad affrontare la fatidica salita per Foncebadón. Altre ore in salita in un bosco non troppo frequentato. A farmi compagnia un senso di inquietudine, mentre costeggio metri e metri di croci di legno, legate ad una rete lungo il sentiero roccioso.
Lì, pellegrini di ogni tempo, età e cultura avevano deciso di incastonare croci fatte di spiriti e sussurri. Due semplici bastoncini di legno tenuti insieme, a mo di croce, da una preghiera.
E fu Foncebadón…
Messo piede a Foncebadón ancora non ho ben capito che forse sarebbe meglio consultare l’utilissima guida del cammino per scegliere un albergue in cui alloggiare. Ma come in tutte (o quasi) le decisioni importanti della mia vita, mi affido all’istinto. Perché diciamocelo, la prima notte in un ostello, da sola per giunta, poteva trovare del suo solo se affidata al destino.
L’istinto mi porta all’albergue Monte Irago. Un ostello in cui si respira un’atmosfera talmente hippy che neanche in Motel Woodstock. Il calore degli spagnoli è inconfondibile. Toni, il responsabile dell’ostello, mi accoglie con un chai tea, un’antica bevanda aromatizzata indiana che sorseggio al calore di racconti e di un ambrato tramonto spagnolo.
In un albergue del genere la cena non può che essere comunitaria. E quindi mi ritrovo seduta, attorno ad un tavolo di legno consumato, a mangiare paella vegetariana e a sorseggiare vino tinto con perfetti estranei dall’aspetto familiare.
Due ragazze tedesche, una coppia americana e poi loro, i magnifici tre, che hanno avuto la “(s)fortuna” di incappare in una mia odiosissima abitudine. Quella di affibbiare soprannomi a chi mi è simpatico. La Viola (Alessandra) per i suoi capelli violacei andanti (o meglio, andati). La Viola è stata il mio braccio destro in ogni minchiata fatta lungo il Cammino. Senza di lei mi sarei sentita una vera scema, un pesce fuor d’acqua. Perché serve una complice con cui sentirsi sempre a proprio agio.
La Saggia (Francesca), ovvero il deus ex machina di ogni situazione. La Saggia snocciola parole in ogni lingua al mondo esistente. Se si incontrava un pellegrino del Burundi, lei attaccava a parlare in kirundi. Se avevi bisogno di una qualunque cosa, dalla grattugia per pecorino allo stetoscopio di ultima generazione, lei la tirava fuori dal suo zainetto easy da 40 litri.
E, poi, c’era lui: Il Prof (Mattia). Il più piccolo del gruppo, nonché colonna portante di tre scapocciate. Colui che ad ogni nostro dubbio amletico, o problematica di qualsiasi natura, in qualsiasi dimensione spazio-tempo, era in grado di fornire una risposta logica, coerente e pure esatta. Il figlio segreto di Antonino Zichichi e Margherita Hack sotto mentite spoglie di un ragazzo di 27 anni.
C’è una domanda che vi sentirete fare durante il cammino. La prima, la più frequente in verità, e anche la più temuta (perlomeno da me). Perché hai fatto il Cammino?
Credo non ci sia domanda più intima di questa. Ho sempre avuto una certa esitazione nel rivolgerla ai pellegrini incontrati lungo la via. In realtà ora che ci penso, forse, non l’ho mai fatta. Ma credo anche che sia l’unica vera ragione che unisca tutti i pellegrini in cammino. Una domanda. Una motivazione. Una spinta. Un sentimento. Non siamo partiti per la Puglia per godere de lu mare lu sole lu ientu. Non si fanno 30 chilometri al giorno per godere del panorama o per sgranchirsi le gambe.
Le vesciche, i disagi e i dolori in ogni dove, che ci hanno accompagnato durante il viaggio, non ce li siamo certo andati a cercare. E quindi, che cos’è che inseguono tutti in quella forsennata camminata verso Santiago? Che cos’è che volevo da quel Cammino? Neanche finito il primo giorno che questa domanda mi è piombata addosso. A farmela è stato il Prof, che tra un chupito e l’altro mi chiede perché ho scelto di fare il Cammino. È stata come una sprangata chiodata dietro la schiena. Se mi avessero costretto a fare in ginocchio sui ceci, 10 volte, avanti e indietro, la salita per Foncebadón ne sarei stata più sollevata.
Alla fine, delle parole che assomigliassero ad una risposta sono uscite fuori. Credo siano andate perdute tra insoliti grappini caldi e note stonate attorno ad un fuoco. Certo è, che senza neanche rendermene conto, il Cammino aveva iniziato a scavare dentro. E a pulire come una spugna.
Forse ne avrei saputo di più il giorno seguente. In direzione Ponferrada, passando per la Cruz de Hierro. Ma, ora, era solo il momento di trasformarsi in una larva e lasciarsi andare in un caldo sacco a pelo viola. Che domani è tempo di farsi farfalla e provare a volare.
Il mio Cammino di Santiago giorno per giorno…
#2 giorno: Foncebadon-Ponferrada
#3 giorno: Ponferrada-Villafranca del Bierzo
#3 giorno: Villafranca del Bierzo-Trabadelo
#4 giorno: Trabadelo-O’Cebreiro
#5 giorno: O’Cebreiro-Triacastela
4 Comments
Alessandra
Settembre 15, 2017 at 10:39 pmBellissimoooo ed ricco raccontovti un csmmino profondo.. grazie di questa condivisione …sono un amica della viola e la saggia .alessandra
Alice
Settembre 16, 2017 at 1:26 pmGrazie mille Alessandra!!!! 😊
Francesca
Settembre 15, 2017 at 5:23 pmLacrimuccia che fa già capolino.. sono certa che ne avremo ancora delle belle. Sono impaziente di leggere il resto Alice :*
Alice
Settembre 18, 2017 at 7:49 am:-*