È incredibile come a distanza di mesi dall’ultimo post dedicato a Santiago, mi sembra ancora di sentire sulla pelle quelle percezioni di un viaggio mai finito. Ma forse, quando la penna chiama in una direzione non è mai un caso. Capita sempre che va ad incastrarsi con quel momento perfetto, seguace della vita. La penna ne è una mera interprete e testimone.
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Oltrepassiamo i nostri ponti dopo esserci arrivati e ce li bruciamo alle spalle, e niente mostra il cammino percorso, tranne il ricordo dell’odore del fumo e la sensazione che una volta i nostri occhi hanno lacrimato.
Tom Stoppard
La chance offerta alle volte dal caso (di cui sostengo fortemente l’inesistenza) nel dormire in un albergue nuovo, pulito, arioso ma soprattutto con due bagni a disposizione, rischia di farci abituare ad un lusso che sul Cammino non è concesso. Ma intanto, dopo una serata come quella appena trascorsa e una nottata in cui il momento peggiore è stato solo quello di salire sul letto a castello, direi che mi posso beatamente accontentare. Oddio, non che non sia stata un’esperienza a sé anche quella notte… prima di dormire sono stata colta dal terrore di cadere, dato il tremendo cigolio del letto a castello, e di ritrovarmi al piano di sotto dove non c’era il Prof come solitamente accadeva, ma una ragazza bionda, a cui il giorno dopo ho dato il tormento chiedendole infinite volte se l’avessi svegliata, dato che nel sonno mi muovo con la stessa la grazia di un rinoceronte.
A dir la verità, poiché questi sono i post della verità, devo confessare di averla svegliata (inconsapevolmente) per chiederle se fosse riuscita a dormire con me al piano di sopra che facevo le piroette nel letto. Il problema non sarebbe sorto se ci fossero stati il Prof, che ormai mi conosceva in tutto il mio peggior squallore; o Luisa, con cui ho scoperto essere in perfetta sintonia quando a Melide, ha creato il panico con la sua coinquilina di letto americana. È bene sapere che è sufficiente trascorrere insieme almeno due giorni di cammino perché ogni forma di pudore, vergogna o dignità sfumino davanti alla necessità di adattarsi al dolore e alla stanchezza. È come se ogni sorta di energia in nostro possesso confluisse nello sforzo e nella concentrazione ad adattarsi al cammino. Figuriamoci se si può pensare a make up, cerette o qualsivoglia operazione di femminilità.
La figura porca del giorno l’avevo fatta. Mi sentivo appagata nell’utopica speranza che per quella giornata avevo già dato. Recupero lo zaino e si va. Naturalmente partiamo con il buio pesto a rendere tutto più intrigante. In particolare quando una marea di ciottoli disseminati sulla strada fanno gridare vendetta alle caviglie. Le torce da testa, che consiglio vivamente di portare a chiunque decida di mettersi in marcia, sono il salvavita dei primi chilometri della giornata. Nel buio più assoluto delle campagne spagnole, però, non sono certo il faro di batman che illumina a millemilamiglia. Siate pronti, dunque, a storte e inciampi di ogni sorta. Nell’oscurità non resta che adattarsi ad un’adrenalinica condizione di incertezza e continuare a camminare finché non torna la luce ad illuminare il sentiero. Le prime luci dell’alba, poi, sono uno spettacolo per cui vale la pena affrontare con coraggio le nostre ore più buie. Ma questo è un discorso più generalizzato, che vale anche per la vita con le sue difficoltà estreme.
Un’incantevole Galizia
La Galizia, non mi stancherò mai di ripeterlo, è incredibile. Continua a stupirmi con la sua imprevedibilità, i sentieri verdi, le discese ardite e le risalite dal cuore gonfio e dalle lacrime che perdono l’orientamento. L’importante è andare avanti e noi lo facciamo, altroché se lo facciamo. Proseguiamo con una passione sfrenata, un carico di energia incontenibile che talvolta ci fa lasciare il sentiero giusto ma senza mai confondere nel farci voltare indietro. La strada percorsa ormai è alle spalle. Quel che è fatto è fatto, non si può che seguitare a camminare in questo perseverante andare che, nonostante le disfatte, ha del meraviglioso. Mi sono spinta a chiedere conferme, rassicurazioni, ristoro e il paesaggio ha esaudito i miei desideri. In realtà, credo abbia esaudito anche quelli che ancora non sapevo di avere.
Lungo quel tratto di Galizia ho lasciato libero lo sguardo su distese a perdita d’occhio, dipinte da fili d’erba verde smeraldo che, di tanto in tanto, si abbandonano all’audacia mostrando la terra nuda. Quelle zolle di creta ambrata brillano con i raggi sfuggiti a nuvole disinvolte, che si sono spinte al limite per lusingare i campi galiziani. Noi, silenziosi, camminiamo da soli per affidare più facilmente i pensieri a quel quadro dal fascino fiabesco. Un inno salvifico al cielo.
Nel riabbassare lo sguardo il cammino ci era scivolato sotto ai piedi, portandoci davanti ad uno dei cippi di pietra più famosi, poco prima di Ferreiros: 100 km a Santiago. Solo 100 km a Santiago. Pensate che il cippo è stato spostato più avanti di qualche km nel 2016, perché dove era stato messo inizialmente erano 105 anziché 100 km spaccati fino a Santiago. Immaginate quanto anche solo un paio di km per il pellegrino vicino alla meta siano una questione indiscutibile di onore e intransigenza. Se devono essere 100 che 100 siano senza stare lì ad illudere troppo il pellegrino esausto.
Dopo una meritata foto di circostanza, riprendiamo il cammino in un dedalo di sentieri costeggiati da muri di pietre dall’aspetto antico, levigati dai sussurri dei pellegrini e dalle mani che gli hanno donato una carezza in cambio di sostegno.
Perché sul cammino il sostegno è in ogni dove. Persino, anzi soprattutto, in un racconto, in una parola detta da lontano con le mani unite per farla giungere veloce o nella natura che è pronta a sorreggerci se di punto in bianco abbiamo bisogno di “appoggiarci un minuto”.
In questo tratto di strada può capitare che la mano lieve dell’uomo che ha tracciato le frecce gialle si perda tra alberi secolari e piante rampicanti. Gli alberi sembrano proprio che stiano alzando la mano per poter dire la loro. Sembra vogliano confessare che ci sono loro a proteggerci dai raggi di un sole ardente, con quei rami spavaldi che svettano in aria.
In questo punto del cammino non siamo che viandanti taciturni, immersi nel cuore pulsante di un’anima gentile che ci concede il passaggio e che abbiamo rispettato con la forza e l’educazione che ci appartiene. Comunque c’è da stare parecchio attenti a non perdere di vista quantomeno la via principale. Tutte le strade in questo punto del cammino si dirigono ad ovest e conducono a Santiago. Ma certo, è sempre meglio risparmiare le forze per non ritrovarsi in un campo di grano ed essere recuperati da qualche buon contadino pronto a prendere il pellegrino per un orecchio per riportarlo sulla retta via.
Ci siamo lasciati alle spalle Morgade, Ferreiros, Mirallos/Rozas, Mercadoiro, Parrocha per raggiungere Vilachá. I sorrisi a quei campi di grano falciato risplendevano in un camminare che, inaspettatamente, aveva dimenticato la stanchezza e si era fatto lieve. I sentieri intrapresi avevano il respiro di mille umori che i pellegrini smarrivano per strada, per diventare sospiri di sollievo quando da lontano, all’improvviso, scorgevano la meta ambita. Dall’alto di un promontorio, appena usciti da Vilachá, sotto un cielo grigio gonfio di lacrime, in mezzo ad una distesa dall’aspetto incolto, la vedevamo in lontananza: PortomarÍn.
PortomarÍn
Si ha sempre l’impressione di poterla raggiungere con una manciata di passi una città che si scorge in lontananza. Se si allunga la mano sembra quasi di riuscire a toccarla con un dito. Sembra quasi di sentire i profumi dei negozi dalle porte cigolanti, aperte dai pellegrini che entrano in cerca di una qualche salvezza. Tanto che io e la Viola, ci spariamo selfie di felicità come se fossimo giunte a destinazione, in attimi di risate e folli deliri stonati.
Un passo falso come questo poteva essere fatto solo da due impulsive croniche che, al di là delle circostanze, rispondono prontamente alle emozioni di pancia. Ma non esiste nulla di più simile a questa sensazione che una fontana nel deserto di Lut. Una brezza che dura come un soffio di vento ad agosto. Quei pochi secondi di appagamento e soddisfazione nell’aver conquistato anche PortomarÍn, sono stati presi a calci in culo dai chilometri che effettivamente dovevamo ancora percorrere prima di poter dire Toh, eccoci a PortomarÍn!. Che poi, a ripensarci bene, ma arrivati dove che la nostra meta non era neanche a 100 km perché è in continuo movimento; che la vita non finisce ad un traguardo ma continua nei campi da vedere, nei muri di pietra a cui appoggiarsi e nelle brezze d’agosto a venire.
Se non altro è giunto il momento della discesa per raggiungere la valle del Río Miño ed entrare finalmente in città attraversando un imponente ponte moderno. Finito di percorrerlo vi troverete davanti ad una ripida scalinata in pietra, che solo a vederla verrebbe voglia di tirarsi su con qualche fune alla Messner piuttosto che fare i gradini.
Ma si prende coraggio e si va su, gradino dopo gradino, ai limiti di una compostezza di linguaggio che si fatica a conservare. Arrivati in cima, ce lo siamo proprio meritato: ci voltiamo e guardiamo indietro a vedere la strada che si è fatta per giungere fin lì. E poi su verso destra alla volta di quella città che un tempo si faceva chiamare Pons Minee o Villa Portumarini.
Ritrovarsi di nuovo in una città, la vista dei negozi e di persone che non abbiano vesciche o pesi sulle spalle fa tornare in mente abitudini che prima di incamminarsi venivano percepite come necessità. Che, poi, in fondo lo sono mai state?
Cosa vedere a Portomarín
L’antico centro medievale sorgeva anticamente sulle rive del Rio Miño fino al 1956, quando iniziarono i lavori dell’invaso artificiale di Belesar e Portomarín fu inondata e sommersa. Nel 1960 fu ricostruita dove si trova oggi, trasportando gli antichi monumenti, pietra dopo pietra, per ricostruirli esattamente com’erano. Se vi trovate a Portomarín vi conviene allungare la sosta e visitare la Cappella de la Virgen de las Nieves, la chiesa di San Pedro e la Fortezza di san Nicolás, chiesa del XII secolo ad opera dell’ordine dei Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme.
Il tempo non sembra assisterci ancora per molto. Ah già, ho dimenticato di dire che la Galizia riserva sorprese anche con il meteo, decidendo di trasformare improvvisamente una giornata di sole in una fitta pioggia a catinelle. Quindi giusto il tempo di riposare un momento le gambe, apporre un sello sulla credencial, far studiare al Prof la strada e si riparte. Attraversiamo un ponte per raggiungere un versante boscoso, umido come Bangkok a luglio e ripido come l’Annapurna.
L’euforia di Villachá nel giro di pochi minuti aveva lasciato il posto a sentimenti ben più aggressivi, soprattutto perché quella salita no, proprio non ce l’aspettavamo. E non ce la meritavamo neanche a dirla tutta. Era il momento giusto per ricominciare ad inveire contro il Prof, il contatore ufficiale delle pasticche di Voltaren che ogni giorno il mio corpo desiderava con la stessa impazienza di un bambino che aspetta i regali la notte di Natale. Dico io, ma come si fa con due tendiniti a moderarsi nel dosaggio delle pasticche?! Non che la moderazione, in generale, sia il mio forte, però il cosmo tutto mi dà ragione. Ne devi prendere una al giorno, ripeteva con quella sua calma serafica che mi faceva ballare il sopracciglio sinistro mentre socchiudevo gli occhi nel tentativo di ascoltarlo. Una pasticca al giorno?! Ma un blister al giorno, forse avrà voluto dire. Beh, fatto sta che lo ascoltavo sì: ne prendevo una al giorno di Voltaren (vabbè, ok, alle volte due), a cui però poi ne aggiungevo una di ibuprofene che custodivo in una tasca segreta dello zaino. Come biasimarmi?!
[Prof perdonami, te lo avrei detto e questa mi sembra l’occasione giusta per una confessione più che onesta ricolma di affetto]
Quel pendìo, il Monte San Antonio, davvero fuori luogo e scortese per 1 km circa, alla fine lo abbiamo salito, lasciandoci definitivamente indietro ogni forma di pudore, decoro e benevolenza. Da lì in poi sarebbe stata quasi tutta in pianura, tra pini e prati. Ma niente, l’indignazione ci aveva sopraffatti e ce la siamo portata sui volti per un bel tratto sulla via di Ventas de Narón, dove avevamo deciso di fare tappa.
Man mano che si cammina non si può far a meno di notare l’attività laboriosa e certosina dei contadini nei campi, così come anche degli agricoltori dediti al pascolo di bovini. Vi capiterà di sicuro, infatti, di incappare in un gregge di pecore o in una mandria di mucche che attraversano baldanzose i paesini galiziani. Ai contadini che compiono quel miracolo quotidiano di rinascita va il mio più accorato saluto con una mano di ammirazione e rispetto, mentre all’altra lascio la gratitudine per il prodigio che riescono a compiere ogni giorno.
Continuiamo per San Mamede y Velade, spostandoci su sterrati che corrono paralleli ad una grande strada asfaltata. Credo fosse la statale per Santiago addirittura, ma non ci metterei di certo la mano sul fuoco dato che mi perdo anche facendo il giro intorno al palazzo di casa. Passiamo davanti ad una fabbrica di mattoni, ad un capannone di concimi e continuiamo fino a Toxibo, dove è sempre il caso fermarsi un attimo ad ammirare un bellissimo horreo fatto di legna e pietra benedetto da una croce.
Infastiditi da una pioggerellina sottile che ci rincorre da Portomarín, a ridosso di una macchia di pini, si prosegue fino a Gonzar, dove decidiamo di far sosta al cafè-bar Descanso del peregrino. Lì ho ritrovato la coppia tedesca padre-figlio conosciuti a Balsa, partiti per celebrare il passaggio del ragazzo all’età matura. Un viaggio per accompagnare il suo adolescente all’età adulta, su quel filo sottile di malinconia, timori e speranze che serba un padre nei confronti del figlio dal futuro a venire. Quel viaggio ha segnato per loro l’ultima esperienza come figlio e la prima come adulto, mentre a sorreggerlo c’era un padre divenuto compagno di volo. Vederli insieme come padre e figlio, come due amici, condividere con loro quella magia è stato uno dei momenti più intimi del mio viaggio. Mi hanno accolta, salutata e abbracciata come fossi stata l’amica più cara. Abbiamo pranzato, bevuto insieme e stretti in un ultimo saluto fino a Santiago dove, chissà, magari ci saremmo rivisti; o semplicemente ci saremmo incontrati nella memoria cuore.
Riprendiamo la via fra tratti di strada asfaltata e sterrati dai colori d’altri mondi. Il Cammino sembrava aver preso in prestito i colori di Van Gogh per farli danzare all’impazzata su un sentiero spianato comparso dal nulla.
Ancora pochi passi e saliamo verso Castromajor, dove s’incontra un’iglesia románica del XII secolo e i resti di una Galizia celtica, poiché era sede di un accampamento pre romano. Non è il tempo, però, di fare i turisti quindi proseguiamo fino a raggiungere Hospital da Cruz. Manca poco a Ventas de Narón.
Ventas de Narón
Appena un paio di chilometri, almeno credo. Resta solamente da attraversare la strada Statale N-540 su un cavalcavia che nascondeva dei prodigi. Passo dopo passo camminiamo sulla quotidianità di automobilisti, motociclette e tir, tanti tir, che sfrecciano sotto ai nostri piedi come un presente che ormai sentiamo non appartenerci più come prima. In quella dimensione estranea ma appagante, in cui avevamo deciso di immergerci nell’estate del 2017, avevamo scoperto la nostra casa. Il nostro futuro. Perché quando si inizia a camminare e si diventa pellegrini, non si torna più indietro. È stato uno dei momenti del cammino che ricordo con più affetto e premura: percorrere uno squallido cavalcavia, su una statale qualunque, sotto un cielo cupo e chiusi nella morsa di dolori lancinanti. Sì, proprio questo momento.
Sono stati passi importanti, in cui era racchiusa l’inadeguatezza e l’ignoranza della propria condizione di esseri umani affidati ad un caso che non esiste. È stata come una liberazione l’aver compreso l’incomprensibile. In quegli attimi mi sono raccolta in un senso di felicità e paura nel tornare ad una routine che avrebbe potuto farmi dimenticare anche un solo istante di quel percorso di conforto, allegria e affanni.
Eppure, nonostante tutto, sono stati passi di risate a crepapelle. Le braccia alzate a sventolare quella strana e insensata forma di felicità, mentre lanciavamo urla di liberazione e lacrime da affidare al vento. Quel cavalcavia ci ha offerto l’invincibilità. Vedevo sfrecciare i tir come la stranezza vissuta fino a quel punto da ogni pellegrino. La stramberia di affrontare una sottile dicotomia tra il tempo contemporaneo e un’epoca parallela dalle sembianze ancestrali. Parlo della condizione medievale vissuta da ogni pellegrino, in contrasto con una realtà che, nel mondo, procedeva come di consueto nella sua più assoluta “normalità”. È stato quello il momento in cui da pellegrina quale ero diventata, ho accettato il mio futuro di raminga, incluso in un perenne andare dalla cornice evanescente. Una gioia provata solo dal pellegrino che ha fatto propria questa grande verità e ignorata da un presente che sfreccia inconsapevolmente con i tir sotto di noi.
Eccoci finalmente al termine della settima tappa: Casa Molar a Ventas de Narón.
Non mi soffermerò molto su un posto che definire modesto è dir poco. Ma le camere (un paio se ben ricordo) sono intime e pulite, così come la stanza dedicata alla cena. [Definirlo ristorante sarebbe stato davvero troppo]
Non dimenticherò mai quando un gruppo di pellegrini, vedendomi con il piede mezzo fasciato, mi chiese se fossi io la ragazza dalla vescica più grande mai vista finora. Così gli era stato riportato: di aver incontrato una ragazza con una vescica enorme. Inutile sottolineare la porcheria della faccenda ma sul Cammino è quasi indice di soddisfazione e orgoglio. Fare chilometri e chilometri con un vero e proprio buco sotto alla caviglia era un atto eroico. Chi ero io per non accontentare una simile richiesta tra stupore e consigli che non esistevano per la vescica più grande che avessero mai visto finora.
Sarebbe per me impossibile scrivere nel dettaglio di quella serata. Ma custodisco gelosamente il ricordo di un’amorevole telefonata ai miei genitori, i miei pilastri, davanti alla capela de Ventas de Narón. Sono seguite ore all’insegna di una smodata allegria e di una grande fraternità, che custodisco teneramente tra i miei pensieri più dolci.
Se ne hai voglia, qui ci sono le tappe precedenti:
Il Cammino di Santiago: quindi si va…
#2 giorno: Foncebadon-Ponferrada
#3 giorno: Ponferrada-Villafranca del Bierzo
#3 giorno: Villafranca del Bierzo-Trabadelo
#4 giorno: Trabadelo-O’Cebreiro
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