In un giorno di dolore, pensare ad un dolore più grande, pare sia di conforto…
Due strade divergevano in un bosco d’autunno e dispiaciuto di non poterle percorrere entrambe, essendo un solo viaggiatore, a lungo indugiai fissandone una, più lontano che potevo […]. Lo racconterò con un sospiro da qualche parte tra molti anni: due strade divergevano in un bosco ed io – io presi la meno battuta. E questo ha fatto tutta la differenza.
Robert Frost
La strada che ho preso, al mio quarto giorno di cammino, la differenza l’ha fatta, sì. In particolare sui miei tendini.
Ma andiamo con ordine…
Dire che la notte appena trascorsa non sia stata tormentata è un eufemismo bello e buono. Claire, la manager francese, credo sia stata l’unica a chiudere gli occhi senza sentirsi trascinata su un John Deer. Quella che appare come una deliziosa e coraggiosa donna, in realtà, è una vera e propria arma di distruzione del sonno di massa. Claire, la scorsa notte, ha russato come una roboante famiglia di orchi in preda ad una forma di sinusite cronica sul tagadà.
Che sia stata lieve o straziante, la notte passa e il Cammino richiama a sé i pellegrini.
La meta del giorno è il monte O’Cebreiro, un nome che ho sentito pronunciare sul cammino parecchie volte, paragonandolo all’idra a tre teste. Pare che l’ombra delle difficoltà che nasconde, intimorisca anche i pellegrini più ferrati.
Un monte di 1330 m con un dislivello di 800 m rappresenta una delle mete significative del Cammino. Il Cebreiro traccia il confine tra i campi assolati della Castiglia e la rigogliosa Galizia, ultima regione del Cammino di Santiago.
La fine di un percorso. L’incipit di un altro.
Ad ogni modo, la mattina in cui avrei dovuto essere più in forma delle altre, sentivo il mio corpo cedere passo dopo passo. I classici dolori che si avvertono dopo una decina di km di marcia, hanno deciso di farsi sentire prepotentemente fin dalla partenza. I dolori ai tendini di entrambe le gambe sembravano lame conficcate nello stinco della gamba sinistra e nella caviglia della destra.
Partita da sola nel buio più totale di Trabadelo, dopo appena pochi chilometri, un cartello indica una strada sterrata sulla destra. Due strade divergevano: la statale e un sentiero nel bosco.
Con la consapevolezza di non potermi permettere di sprecare energie in passi sbagliati, devo investire le poche che mi restano per proseguire sul sentiero corretto. Nonostante il sonno, nonostante il buio, nonostante la segnaletica poco chiara, devo prendere la strada giusta.
E alla fine, ovviamente, ho preso quella sbagliata. O meglio, ho seguito la variante per il Cebreiro più difficile. Un bosco fitto, nero, in cui neanche la luna riusciva ad infilarsi nonostante, quella notte, fosse fatta di latte e platino.
La sensazione di poter essere aggredita non tanto da un “umano”, quanto da un animale non mi ha lasciata neanche per un attimo. 3 km di buio pesto e dolori per capire di aver preso il sentiero sbagliato. Altri 3 km per tornare indietro e incamminarmi sulla statale per 10/12 km.
Mi insinuo tra le case di Portela de Valcarce. Proseguo per una via secondaria che conduce ad Ambasmetas e, infine, arrivo a Vega de Valcarce. La strada è pianeggiante, eppure non posso fare a meno di fermarmi ogni 100 metri per stirare i muscoli. Azzardare uno stretching veloce. Un tentativo disperato per ammorbidire il dolore.
Passo dopo passo non facevo altro che chiedermi come avrei affrontato il Cebreiro con quelle stesse gambe con cui a malapena riuscivo a reggermi sull’asfalto. Mi lascio alle spalle le case di Vega. Passo per il Castillo de Sarracin fino ad arrivare a Ruitelan, dove sorge la chiesa di San Bautista.
Costeggio il corso del Rio Valcarce fino ad entrare a Las Herrerias.
E si comincia a salire. Imponenti castagni secolari tentano di addolcire la salita fino a La Faba. Poi gli alberi scompaiono per lasciare il posto all’ultima località castigliana: la Laguna de Castilla.
È qui che molti pellegrini decidono di fermarsi per cercare ristoro. Nel frattempo i dolori continuano a prendere il sopravvento su qualunque altro pensiero. Persino l’appetito è volato via insieme a speranze e preghiere.
Al dolore dei tendini si è affiancato un fastidio insolito, sulla parte interna di entrambi i piedi. Le vesciche. Amiche e compagne di viaggio dei migliori pellegrini, due vesciche grandi quanto mandarini si erano insinuate silenziose tra le due tendiniti.
Non solo: avevano deciso di ribellarsi prendendo infezione, e aggravando una situazione fin troppo disperata. Indossare i sandali avrebbe significato rischiare di peggiorare la situazione con polvere e sassi di cui il cammino si nutre.
In quel momento ho capito perfettamente quando qualche pellegrino diceva che sul cammino si può evitare di pensare a quello che abbiamo lasciato a casa. A quello che ognuno si è fatto scappare. A quando non hai mai voluto veramente rischiare. Il bisogno primordiale di sopravvivenza, di concentrarsi sul proprio benessere è più forte di qualsiasi altra forma di afflizione.
Ci sono momenti in cui il Cammino non ti permette di pensare a nulla. Te lo impedisce con una forza sovrannaturale a cui non puoi far altro che sottometterti. E ha solo un mezzo per farlo: il dolore. Ma il dolore vero, quello fisico. Di quei dolori che ti fanno desiderare solamente di sdraiarti a terra, magari su un materasso, per medicarti le ferite.
Per la prima volta ho pensato di non farcela. Il dolore aveva cancellato ogni punto di riferimento e speranza che abitava in me. Sono dell’idea che ognuno di noi, quando crede di affogare, debba avere un àncora di salvezza a cui aggrapparsi per tornare a galla. La mia, sono i cavalli. Non so come né perché, ma è proprio nell’istante in cui ho visto più nero di Carlo Conti dopo un’estate alle Maldive, che ho sentito un suono fin troppo familiare: rumore di zoccoli sullo sterrato.
Un cavallo dal manto bianco mi viene incontro. Sulla sella, in cuoio rovinato, c’è inciso il suo nome: Estrella. Una stella, proprio come il suo nome, era comparsa all’improvviso per rimettermi in Cammino con una forza che credevo di aver perso. Mi è bastato percepire il calore di quell’esemplare così possente per ritrovare le energie sufficienti e tornare a camminare. Un po’ come gli abbracci di Virginia Satir. Certo, il raptus di montare in sella direzione Cebreiro mi ha sfiorata. Come ogni volta che vedo un cavallo del resto. Ma ho recuperato il senno e sono ripartita a piedi.
Una salita interminabile di 10 km. Una salita di dolore estremo, alleviata da incontri casuali che hanno saputo darmi la spinta giusta per andare avanti. Ho ritrovato Rochelle (e il suo blister di ibuprofene). Ho conosciuto Veronica, una ragazza minuta che ha preferito camminare con me piuttosto che al fianco del suo ragazzo dal nome sconosciuto.
Il quarto giorno di Cammino mi ha donato la consapevolezza di non poter far altro, a volte, che arrendersi alla strada che la vita ci pone davanti. E percorrerla con fiero coraggio. Incontrare il dolore, conoscerlo, capirlo e trovare il modo di affrontarlo per continuare a camminare, riprendendo familiarità con il proprio corpo, aiuta a crescere. Aiuta ad avere pazienza.
Essere pazienti è una dote che ci dovrebbe appartenere. Riuscire ad esserlo dona un gusto dolce e ci fa rimpiangere, in futuro, di non aver assaporato appieno quella dolce attesa. Essere pazienti è di una difficoltà estrema. Significa volersi bene, essere generosi con se stessi prima ancora che con gli altri. Imparare ad amarsi e apprezzarsi che, forse, è la cosa più complicata da gestire.
Siamo sempre troppo concentrati sui nostri pensieri. Sempre più spesso sui pensieri che ci devastano l’anima. Non ci curiamo affatto della scatola che è costretta a tenerli al riparo offrendogli protezione. Non riflettiamo minimamente sul fatto che quella scatola prima o poi cederà se non ce ne prendiamo cura. È a quel punto che si ribellerà e prenderà il sopravvento sul resto.
Ho camminato come una forsennata per lasciarmi indietro rabbia e dolore. Ho sfidato il corpo per combattere l’ego, non pensando al fatto che il dolore non è una punizione per se stessi. Ma va vissuto come uno stimolo a fare il possibile con ciò che si incontra lungo il cammino. Noi stessi.
Ricordatevi di voler bene al vostro corpo. Di averne cura. Di sentire ogni respiro che pesa come un macigno ma che resta pur sempre un soffio dell’anima. Una freccia di perdono che nasce dentro di voi. Ascoltatelo, carpitene ogni messaggio che cerca di mandarvi. Fatelo riconciliare con uno spirito che, spesso, spadroneggia.
Alla fine ce l’ho fatta: sono in cima, scortata da dolori disarmanti. Alla vista di un paesino dal sentore medievale, sono crollata sulle ginocchia per scoppiare in un pianto disperato e liberatorio.
Ci sono volute due tendiniti, vesciche orripilanti e un 38 di febbre per placarmi e mettermi ko. Per farmi accettare l’idea che quella sera avevo bisogno di regalare al mio corpo un letto vero, con lenzuola pulite e un bagno solo per me. L’istinto di sopravvivenza al dolore ha prevalso sul senso di colpa nei confronti dei pellegrini raccolti nell’unico ostello del paese.
Quella sera ero rassegnata all’idea che l’indomani non sarei riuscita a muovere neanche un muscolo. Ero certa che, per almeno un giorno, non avrei camminato. Ma la consapevolezza di aver fatto pace con me stessa mi bastava per chiudere gli occhi in un sonno di sollievo.
Che poi, in realtà, ogni alba illumina sempre il Cammino di una sorprendente luce…
Il mio Cammino di Santiago giorno per giorno…
#2 giorno: Foncebadon-Ponferrada
#3 giorno: Ponferrada-Villafranca del Bierzo
#3 giorno: Villafranca del Bierzo-Trabadelo
#5 giorno: O’Cebreiro-Triacastela
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